Nirukta = Hermeneia


Sono ben note a ogni studioso dei testi vedici quelle che l'erudizione moderna designa come «etimologie popolari». A mo' d'esempio si può citare la Chandogya-Upanishad (Vili, 3,3): «In verità, quest'Atmâ è dentro il cuore (êsha àtmà hridy)». Ed ecco, di questa espressione, il nirukta (in greco hermeneia): «Questi è dentro il cuore (hridy ayam)» è questa la ragione per cui il cuore è chiamato hridayam. Chi abbia capito ciò entra ogni giorno in Cielo».

In Yaska, naturalmente, gli esempi abbondano, come questo, tratto dal Nirukta, V, 14: «Pushkara significa "mondo intermediario", perché quest'ultimo "nutre" (poshafi) le cose che emergono all'esistenza. L'acqua è anch'essa detta pushkara, in quanto è mezzo d'adorazione {pùjàkara) e "deve essere venerata" (pùjayitavya) essa stessa. Intesa come "lot " (pushkara), la parola ha la medesima origine, poiché il loto è un ornamento (vapushkara), ed un " fiore " (pushya), perché "fiorisce" (pushyafé)». Spiegazioni simili sono in genere respinte come «gio¬chetti etimologici» (Eggeling), «essenzialmente artificiali» (Keith), «di alta fantasia» (Mazumdar), o più semplicemente come «giochi di parole».

E tuttavia gli eruditi s'accorgono in qualche modo che non possono ignorarle completamente, che, come scrive l'ultimo de¬gli autori citati (Indian Culture, II, p. 378), «si trovano in molte Upanishad spiegazioni immaginose... testimonianza di scarse conoscenze grammaticali e di ancora peggiori conoscenze linguistiche; e nonostante ciò i grammatici, che pur non le tengono per corrette, al loro proposito tacciono»: in altre parole, i più antichi grammatici della lingua sanscrita, le cui capacità scientifiche sono universalmente riconosciute, non hanno riportato queste «spiegazioni» nelle loro «grammatiche», ma nel contempo non le hanno nemmeno mai condannate.

La verità è che il nirukta non è una branca della filologia nel senso moderno della parola; una spiega¬zione ermeneutica può o non coincidere con il pedigree di fatto della parola in questione.

Il nirukta (=hermeneia) si fonda su una teoria del linguaggio di cui la filologia e la grammatica sono semplici rami; si può dire, anzi, i rami più secondari.

Ciò dico, naturalmente, non senza rispetto, e il più sincero, per quei «leviatani della scienza, irreprensibili nella loro onniscienza, che attraversano senza fremere l'oceano della linguistica, l'esplorano nei suoi più tenebrosi abissi, e quando non si azzuffino tra di loro, si gettano sugli audaci pesciolini che, pur nuotando in superficie, hanno la sfronta-tezza di avventurarsi a loro rischio e pericolo tra i flutti», e sarò sempre pronto ad accettare il consiglio di tali giganti su qualunque questione di genealogia verbale.

L'etimologia, che è un'eccellente cosa finché sa stare al suo posto, è nondimeno proprio una di quelle «scienze moderne che altro non sono, nel senso più letterale della parola, se non " residui " di scienze antiche, oggi incomprese» .

Nell'India, la scienza tradizionale del linguaggio costituisce l'argomento della Pûrva-Mîmânsâ, della quale è caratteristico l'«insistere sul principio dell'eternità dei suoni articolati e sulla conseguente dottrina secondo cui la connessione d'un suono con il suo significato non è data da una conven¬zione, ma è invece connaturale alla parola stessa».

Sen¬nonché quando il professor Macdonell, dopo questa eccellente osservazione, aggiunge (Sanskrit Literature, 1905, pag. 400) che «a motivo del suo scarso interesse filosofico, questo sistema non ha finora meritato l'attenzione degli eruditi europei», egli evidentemente vuol solo affermare che questo argomento non ha un particolare interesse per lui e per coloro che condividono le sue idee, poiché non si può supporre che abbia vo¬luto deliberatamente escludere Platone dal numero dei «filosofi».

Non solamente infatti Platone si avvale del metodo ermeneutico nel Cratilo, allorché, per esempio, spiega che «ciò che ha chiamato» (tó kalésan) le cose con il loro nome s'identifica al «bello» (tò kulàn), ma nell'intero corso di questo stesso dialogo s'occupa del problema della relazione che unisce i suoni ai significati, e vuoi stabilire se questa relazione sia essenziale oppure accidentale.

La sua conclusione è che il vero nome di una cosa è quello che ha un senso naturale (in sanscrito sahaja), vale a dire quello che è realmente una «imitazione» (mìmesis, in sanscrito: pratikriti) della cosa stessa in termini di suono, esattamente come, nella pittura, le cose sono «imitate» in termini di colore; tuttavia, a motivo dell'imperfezione che di fatto si riscontra nell'imitazione fonetica — la quale può considerarsi conseguente ad una reminiscenza imperfetta — la formazione delle parole di cui ci serviamo ha dovuto essere facilitata da certi artifici, sicché il loro significato è in parte convenzionale.

Un passaggio del Cratilo ci dice cosa bisogna intendere per «significato naturale»: esso è quello sul quale Socrate e Cratilo si trovano d'accordo quando affermano che «la lettera rho (in sanscrito ri, r) esprime le idee di rapidità, movimento e durezza».

Cratilo sostiene del resto che «colui che conosce i nomi, conosce anche le cose che essi esprimono»; il che equivale ad asserire che «colui che per primo diede i nomi alle cose» l'ha fatto con una certa conoscenza della loro natura; egli afferma pertanto che questo primo «impositore di nomi» (in sanscrito nàmadhah) dev'essere stato «una potenza più che umana» e che i nomi dati in origine alle cose erano necessariamente i loro veri nomi.

Viene inoltre spiegato che vi sono due specie di nomi, quelli che si riferiscono al movimento e quelli che concernono il riposo, e tutti designano piuttosto degli atti che delle cose agenti.

Socrate, a sua volta, riconosce che la riscoperta dell'essere reale, astraendo dalle sue denominazioni, può «superare sia la mia che la tua capacità».

La dottrina indù ugualmente insegna (Bridad-dévatà, I, 27; Nirukta, I, 1 e 12, ecc.) che «i nomi sono tutti derivati da azioni»: se indicano un'azione, i nomi sono dei verbi, e sono sostantivi allorquando qualcuno, o una cosa, è considerato come l'agente d'una azione.

Non bisogna scordare che il termine sanscrito nàma non significa solamente «nome», ma anche «forma» (in senso aristotelico e scolastico), «idea», «ragione eterna» .

«Il suono e il significato» (sbabdàrtha) sono strettamente connessi; troviamo anzi questa stessa espressione impiegata come un'immagine dell'unione perfetta, qual'è quella tra Shiva e Shakti, tra l'essenza e la natura, tra l'atto e la potenza in divìnis.

I nomi sono la causa dell'esistenza; si può affermare che in ogni cosa composta (sattva, nomar ùpa) il «nome» (nàma) è «la forma» del «fenomeno» (rùpa), nel senso in cui si dice che «l'anima è la forma del corpo».

Nello stato di non-essere (asat) o d'oscurità (famas), i nomi dei princìpi individuali non sono ancora proferiti, essi sono «nascosti» (nàmàni gubyà, apìchyà, ecc.; Rig-Véda, passim) ; l'essere nominati corrisponde al passaggio dalla morte alla vita.

Lo stesso eterno Avatàra, come il bambino (kumdra) d'vin padre senza bontà, domanda un nome, poiché «è mediante il nome che s'allontana il male (pàpmànam apahanti)» (Shatapatha- Bràhmana, VI, 1-3, 9); ciò che gli esseri più temono nel loro cammino è di venire privati dei loro nomi da parte delle potenze della Morte, che sta in agguato, pronta a carpire (Krivir nàmàni provane mushayati - Rig-Véda, V, 44).

«È grazie al suo nome immortale (amartyéna nàmnà) che Indra sopravvive alle generazioni umane» (ibid., VI, 18).

Fintantoché un principio individuale rimane in atto, questi conserva un nome; il mondo dei «nomi» è il mondo della «vita»: «Quando un uomo muore, ciò che non lo abbandona è il nome ; il nome è senza fine , e poiché "senza fine sono gli Angeli Molteplici (vishvédévas), grazie al nome egli conquista il mondo senza fine (Brihadaranyaka-Upanishad, III, 2, 12)».

È con l'enunciazione dei nomi che una «potenza più che umana» non solo designa correttamente le cose esistenti, ma da anche loro l'essere; e se il Creatore è capace di ciò è perché conosce tutti i nomi nascosti, o «titanici» delle cose che non si sono ancora manifestate nel loro proprio dominio; è mediante questa prescienza dei nomi delle cause seconde che egli compie quanto dev'essere compiuto, compresa la creazione di tutti gli esseri individuali .

Leggiamo per esempio nel Rig-Véda: «Mediante i nomi delle Quattro (Stagioni) ha messo in movimento la ruota (dell'Anno), che è trainata da novanta corsieri» (I, 15.5-6) «Tu, o Maghavan (Indra), conosci certamente tutti i tuoi nomi di Titano mediante i quali hai compiuto le tue potenti imprese» (X, .54-4); «Varuna conosce i nomi segreti e nascosti; fa fiorire ogni locuzione (kàvya puru pushyati), così come la luce del cielo fa fiorire ogni specie (pushyafi rupam)» (Vili, 41-5).

È per la stessa influenza che i mantra sono efficaci; cfr. per esempio il Panchavirmasha-Bràhmana (VI, 9, e 10-3): «Con la parola "nato" (jafa) egli fa nascere (jìfamat)...

Dicendo "le vite egli anima tutti i "viventi"», e la Brihadaranyaka Upanishad (I, 5, i8): «In verità è la Parola divina, in virtù della quale qualsiasi cosa egli dica viene all'esistenza».

È dunque in virtù d'un atto di «previdenza» divina che tutte le cose vengono prodotte: «Varuna conosce tutte le cose nel loro principio intellettuale (vishvam sa veda varuno yathà dhiya)» (Rig-Véda, X, 11, i).

«II Creatore dell'universo, il Veggente celeste che percepisce ogni cosa con uno sguardo (samdrik), e che è chiamato "l'Unico di là dai sette rishis"... e che è chiamato Punico Dominatore degli Angeli (yo dévànàm éka èva) verso il quale si rivolgono tutti gli altri esseri per la loro istruzione (samprashna)» (ibid., X, 82, 2-3).

Quest'ultimo passaggio dev'essere confrontato con quelli devo «grazie ai servigi da loro resi nel corso dei sacrifici, ottennero i loro nomi rituali e produssero i loro nobili corpi».

Essere nominati, ricevere un nome, equivale a nascere, ad essere in vita.

Questa creazione per via di denominazione può essere considerata sotto due aspetti: per l'«unico Denominatore» l'enunciazione è, come egli stesso, unica; per i principi individuali questo Significato unico, che contiene tutti i significati, è verbalmente diviso: «Con le loro parole lo resero molteplice, lui che è Uno» (Rig-Véda, X, 114).

Ma, nella misura in cui questa divisione sacrificale è una contrazione ed una identificazione alla diversità, deve essere ben chiaro che il nome, anche se indispensabile per il cammino da percorrere, non rappresenta la meta finale: «La Parola (vach) è la corda, e i nomi sono i nodi coi quali tutti gli esseri sono legati» [Aitaréya-Aranyaka, II, i, 6).

La fine è essenzialmente identica al principio: è solamente quando «non è più nutrito dal nome e dalla forma (nàma- rùpàd-vibhuktah) che il Conoscitore (vidvan) raggiunge quell'Uomo celeste che è di là dall'aldilà; conoscendo Brahma, egli diventa Brahma» (Mundaka-Upanishad, III, 18-19), «Così com'è dei fiumi che scorrendo si dirigono verso il mare... là dove il loro nome e la loro forma sono distrutti e non si parla più che del mare» (Prashna-Upanishad, VI, 5).

«L'anima esigente — dice Eckhart - non trova la sua pace in qualcosa che porti un nome». «Quando ci si perde nella Divinità, ogni definizione sparisce», e per questo aggiunge: «Signore, la mia fortuna proviene dal fatto che voi non pensate mai a me»: di tutte queste affermazioni si potrebbero trovare molti altri equivalenti, tratti dalle fonti cristiane, islamiche o indù.

Si può così intravedere una teoria dell'espressione secondo cui la denominazione e resistenza individuale appaiono come aspetti inseparabili, e possono essere dissociate dal pensiero solo se considerate «obiettivamente», ma coincidono nel soggetto.

Teoria che è quella di un'unica Lingua vivente che nessun individuo può conoscere nella sua totalità, ma che rappresenta la sintesi di tutti i suoni articolati e corrisponde nello stesso tempo a tutte le forme d'esistenza.

Il «Verbo proferito» da Dio è precisamente questa «somma di tutte le lingue» (vachikam sarvamayan; Abhinaya Dar pana) .

Tutte le lingue esistenti sono delle eco di questa lingua universale; queste eco rappresentano dei ricordi parziali e sono più o meno frammentarie, così come tutte le visioni sono rifrazioni più o meno opache del «Quadro del Mondo» (jagach-chitra: Shankaràchàrya, Svàtmanirùpana, 95) o dello «Specchio eterno» (speculum seternum: S.Agostino, De Civìtate Dei, XII, 29): conoscere questa lingua universale, o percepire questo Quadro del Mondo, nella sua totalità ed in modo simultaneo, equivale ad essere onniscienti.
L'enunciazione originaria, inesauribile ed indistruttibile (akshara) (il mantra «om»), è pregna di tutti i significati possibili ed è ritenuta non solo un suono, ma anche una «luce onniforme» (jyofir visha-rùpam; Vajasanéyi-Samhità, V, 35).

Essa è la «forma esemplare» delle cose più diverse e, sia sotto il suo aspetto sonoro che sotto quello luminoso, è precisamente «quella sola cosa che, una volta conosciuta, le cose tutte sono conosciute» (Mundaka-Upanishad, I, 3; cfr. Brihadaranyaka-Upanishad, II, 4-5).

L'Idea - l'aspetto «paterno» - e il linguaggio o il mezzo d'espressione - l'aspetto «materno» -, i quali formano nella loro identità originaria il principio primo della conoscenza, sono evidentemente inaccessibili all'osservazione dei sensi : fintantoché una coscienza individuale può ancora considerarsi tale, fintantoché può essere «distinta», non può aversi onniscenza, e la sol cosa che possiamo fare è «rivolgerci per la nostra istruzione al Denominatore unico» (Rig-Véda, X, 82), cioè verso quella «potenza più che umana» alla quale accenna Platone, affinchè con degli atti di «reminiscenza» ci sia dato di riacquistare le nostre potenzialità perdute, elevando il livello della nostra conoscenza con tutti i mezzi a nostra disposizione.

La dottrina metafisica d'una Lingua universale non dev'essere intesa nel senso che sia stata effettivamente parlata da un qualche popolo della terra; l'idea metafisica d'una Lingua universale è in realtà l'idea del Suono unico, non quella di gruppi di suoni che sarebbero stati proferiti successivamente; ed è proprio a questi gruppi che noi pensiamo quando impieghiamo l'espressione «lingua parlata».

Tale lingua non ci fornisce infatti alcuna conoscenza a priori del pensiero da esprimere, e certe volte «è difficile stabilire se sia il pensiero ad essere difettoso o se lo sia invece il linguaggio che non è riuscito ad esprimerlo» (Keith, op.cit., pag. ^4).

Una supposizione che più naturalmente deriva dall'ermeneutica tradizionale (nirukta), è che sussistano nelle lingue parlate diverse tracce d'universalità e, in particolare, tracce d'una mimésis naturale (con ciò, ovviamente, non intendiamo una semplice rassomiglianza onomatopeica, bensì una vera e propria analogia); e che, anche nelle lingue ampiamente modificate dall'artificio e dalla convenzione, sussista una parte importante di simbolismo, e d'un simbolismo naturalmente adeguato.

In altri termini, basterebbe infatti constatare che certe consonanze, che possono solo eventualmente corrispondere al pedigree di fatto delle parole, offrono nondimeno svariate indicazioni sulle loro affinità e significati: proprio come quando riscontriamo certe somiglianze, sia fisiche che di carattere, al di fuori d'una linea di discendenza diretta.

Tutto ciò differisce enormemente dalla concezione corrente delle «etimologie popolari»: non si tratta infatti di etimologie in senso stretto, ma piuttosto di assonanze significative ; e, in tutti i casi, se proprio si vuole parlare d'una tradizione «popolare», questa tradizione concerne il popolo unicamente per la sua trasmissione e non certo per la sua origine; il folklore e la philosophia perennis provengono da una fonte comune.

Ignorare il nirukta equivale a porsi inutilmente in uno stato d'inferiorità nell'affrontare l'esegesi di testi tradizionali.

Si osservi, al contrario, l'atteggiamento molto più intelligente di Omikron: «Cambiando opinione mi misi a consultare costantemente tutti gli anti chi lessici e frammenti lessicali che potei procurarmi, poiché ritenevo che, in questi primi dizionari ellenici, gli antichi saggi avessero raccolto diversi significati esatti, nonché svariate indicazioni riguardanti le espressioni simboliche ed allegoriche.

Una particolare attenzione accordai alla strana Hermeneia degli antichi grammatici, ritenendo che le loro interpretazioni fossero basate su valide ragioni, anche quando, come fanno generalmente, diverse sono le spiegazioni che danno per la stessa parola» .

Non si può pretendere che le relazioni esistenti tra i suoni ed i significati vengano seriamente studiate nell'epoca moderna, anche solo in modo puramente empirico; abbiamo infatti avuto modo di constatare, come testimonia Macdonell, che «il sistema non ha finora meritato l'attenzione degli eruditi europei».

Anche se ricerche del genere sono state tentate con risultati incerti o negativi, ciononostante resterà pur sempre vero che l'ermeneutica (nirukta), com'è stata effettivamente praticata dagli autori dell'antichità, ci fornisce un aiuto inestimabile per la comprensione del senso dei simboli verbali di cui da la spiegazione.

I termini impiegati nelle Scritture tradizionali hanno quasi sempre un carattere eminentemente tecnico e racchiudono tanti significati, corrispondenti a diversi gradi d'approfondimento, che lo stesso «nominalista» dovrebbe, dal punto di vista della semantica, sentirsi debitore dell'ermeneuta.