René Guénon - I principi del calcolo infinitesimale - Premessa


Benché il presente studio possa sembrare, almeno a prima vista, di un carattere un po’ «speciale», ci è parso utile intraprenderlo al fine di precisare e spiegare più completamente certe nozioni alle quali ci è accaduto di fare riferimento nelle diverse occasioni in cui ci siamo serviti del simbolismo matematico, e questa ragione basterebbe insomma a giustificarlo senza dovervi insistere oltre. Dobbiamo dire tuttavia che ad essa si aggiungono altre ragioni secondarie, concernenti soprattutto quel che si potrebbe chiamare l’aspetto «storico» della questione; quest’ultimo, in effetti, non è del tutto privo d’interesse dal nostro punto di vista, nel senso che tutte le discussioni sollevate riguardo alla natura ed al valore del calcolo infinitesimale offrono un esempio stupefacente dell’assenza di principio che caratterizza le scienze profane, ossia le sole scienze che i moderni conoscano e persino concepiscano come possibili. Abbiamo spesso fatto notare come la maggior parte di tali scienze, anche nella misura in cui corrispondono ancora a qualche realtà, non rappresentino altro che residui snaturati di alcune delle antiche scienze tradizionali: è la parte inferiore di queste che, avendo cessato di essere posta in relazione coi principi, ed avendo perduto perciò il suo vero significato originario, ha finito per assumere uno sviluppo indipendente e per essere considerata una conoscenza sufficiente a se stessa, benché in verità il suo valore come conoscenza si trovi per ciò stesso ridotto quasi a nulla. Questo è evidente soprattutto nel caso delle scienze fisiche, ma, come abbiamo spiegato altrove (1), la stessa matematica moderna sotto tale aspetto non fa eccezione, se la si raffronta a quel che erano per gli antichi la scienza dei numeri e la geometria; e, quando parliamo qui degli antichi, occorre comprendervi anche l’antichità «classica», come il minimo studio delle teorie pitagoriche e platoniche basterebbe a mostrare, o almeno lo dovrebbe, se non si dovesse tener conto della straordinaria incomprensione di quanti pretendono attualmente di interpretarle; se tale incomprensione non fosse così completa, come si potrebbe sostenere, ad esempio, l’opinione di un’origine «empirica» delle scienze in questione, quando in realtà esse appaiono al contrario tanto più lontane da ogni «empirismo» quanto più si risale indietro nel tempo, come d’altronde avviene per ogni altra branca della conoscenza scientifica?
I matematici, nell’epoca moderna e più particolarmente ancora nell’epoca contemporanea, sembrano ormai giunti ad ignorare cosa sia veramente il numero; e con ciò non intendiamo parlare solamente del numero nel senso analogico e simbolico in cui l’intendevano i Pitagorici ed i Cabalisti, cosa fin troppo evidente, ma anche, per quanto possa apparire strano e quasi paradossale, del numero nella sua accezione semplicemente e propriamente quantitativa. Essi riducono, infatti, tutta la loro scienza al calcolo, secondo la concezione più ristretta possibile, intesa cioè come un insieme di procedimenti più o meno artificiali, valevoli unicamente per le applicazioni pratiche cui danno luogo: ciò significa in fondo che essi sostituiscono il numero con la cifra, e, del resto, questa confusione del numero con la cifra è così diffusa ai giorni nostri che la si potrebbe facilmente ritrovare ad ogni istante fin nelle espressioni del linguaggio corrente (2). Ora la cifra, a rigore, non è che l’abito del numero; non diciamo il suo corpo, poiché è piuttosto la forma geometrica che, sotto certi aspetti, può essere legittimamente considerata il vero corpo del numero, come mostrano le teorie degli antichi sui poligoni ed i poliedri, posti in diretto rapporto col simbolismo dei numeri; e ciò si accorda d’altronde col fatto che ogni «incorporazione» implica necessariamente una «spazializzazione». Non vogliamo dire tuttavia che le cifre stesse siano segni interamente arbitrari, la cui forma sarebbe stata determinata dalla fantasia di uno o più individui; deve valere per i caratteri numerici quel che vale per i caratteri alfabetici, dai quali d’altronde non si distinguono in certe lingue (3), potendosi applicare sia agli uni sia agli altri la nozione di un’origine geroglifica, cioè ideografica o simbolica, comune a tutte le scritture senza eccezione, per quanto dissimulata possa essere tale origine in certi casi per deformazioni o alterazioni più o meno recenti.
Quel che è certo, è che i matematici impiegano nelle loro notazioni simboli di cui non conoscono più il significato, e che sono come vestigia di tradizioni dimenticate; la cosa più grave è che non solo non si chiedono più quale possa essere questo significato, ma sembrano persino non volere che ve ne sia uno. In effetti, essi tendono sempre più a reputare ogni notazione una semplice «convenzione», intendendo con ciò un qualcosa che sia posto in maniera del tutto arbitraria, il che costituisce in fondo una vera impossibilità, poiché non si fa mai una convenzione qualsiasi senza avere qualche ragione di farla, e di fare precisamente quella anziché un’altra; solo a coloro che ignorano tale ragione la convenzione può apparire arbitraria, come a coloro che ignorano le cause di un avvenimento questo può apparire «fortuito»; è appunto quanto si verifica in tal caso, e si può vedere in ciò una delle estreme conseguenze dell’assenza di ogni principio, al punto da far perdere alla scienza o sedicente tale, poiché allora essa non merita veramente più questo nome sotto alcun aspetto ogni significato plausibile. D’altronde, proprio a causa della concezione attuale di una scienza esclusivamente quantitativa, detto «convenzionalismo» si estende poco a poco dalla matematica alle scienze fisiche, nelle loro teorie più recenti, le quali si allontanano così sempre più dalla realtà che pretendono spiegare; abbiamo sufficientemente insistito al riguardo in un’altra opera per poterci dispensare dal dirne ancora, tanto più che dobbiamo ora occuparci in modo particolare della sola matematica. Da questo punto di vista aggiungeremo soltanto che, quando si perde così completamente di vista il significato di una notazione, è fin troppo facile passare dall’uso legittimo e valido di essa ad un uso illegittimo, che non corrisponde più effettivamente a nulla e può persino risultare talvolta del tutto illogico; ciò può sembrare assai straordinario trattandosi di una scienza come la matematica, la quale dovrebbe avere con la logica legami particolarmente stretti, eppure è fin troppo vero che si possono rilevare molteplici illogicità nelle nozioni matematiche come sono considerate comunemente nella nostra epoca.
Uno degli esempi più notevoli di tali nozioni illogiche, e che dovremo esaminare qui in primo luogo, benché non sia il solo che incontreremo nel corso della nostra esposizione, è il preteso infinito matematico o quantitativo, fonte di quasi tutte le difficoltà sollevate nei confronti del calcolo infinitesimale – o, forse più esattamente, del metodo infinitesimale, essendovi in ciò qualcosa che, comunque la pensino i «convenzionalisti», oltrepassa la portata di un semplice «calcolo» nel senso ordinario del termine ; non vi sono eccezioni se non per le difficoltà derivanti da una concezione erronea o insufficiente della nozione di «limite», indispensabile per giustificare il rigore del metodo infinitesimale e fame altra cosa da un semplice metodo di approssimazione. D’altronde, come vedremo, occorre distinguere tra i casi in cui il cosiddetto infinito non esprime che una pura e semplice assurdità ossia un’idea contraddittoria in sé, come quella del «numero infinito» , ed i casi in cui è impiegato solamente in maniera abusiva nel senso di indefinito; non si dovrebbe però credere che la confusione tra infinito e indefinito si riduca per questo ad una semplice questione di parole, poiché riguarda in verità le idee stesse. È singolare come questa confusione, che sarebbe stato sufficiente dissipare per tagliar corto a tante discussioni, sia stata commessa dallo stesso Leibnitz, generalmente considerato l’inventore del calcolo infinitesimale, ma che noi chiameremmo piuttosto il suo «formulatore», poiché questo metodo corrisponde a certe realtà che, in quanto tali, hanno un’esistenza indipendente da colui che le concepisce e le esprime più o meno perfettamente; le realtà di ordine matematico, al pari di tutte le altre, non possono che essere scoperte, non inventate, mentre invece come accade fin troppo spesso in questo ambito – è proprio d’«invenzione» che si tratta, allorché ci si lascia condurre, tramite un «gioco» di notazione, nella pura fantasia; ma sarebbe sicuramente ben difficile far comprendere questa differenza a dei matematici i quali s’immaginano volentieri che tutta la loro scienza non sia e non debba essere altro che una «costruzione dello spirito umano», il che, se si dovesse dar loro credito, la ridurrebbe a ben poca cosa in verità! Comunque sia, Leibnitz non seppe mai spiegarsi chiaramente sui principi del suo calcolo, il che mostra come vi fosse in ciò qualcosa che lo oltrepassava e gli si imponeva in qualche modo senza che ne avesse coscienza; se egli se ne fosse reso conto, non avrebbe sicuramente ingaggiato al riguardo una disputa di «priorità» con Newton; del resto, dispute simili sono sempre del tutto vane, poiché le idee, nella misura in cui sono vere, non possono essere proprietà di nessuno, a dispetto dell’«individualismo» moderno, e non vi è che l’errore che possa essere attribuito propriamente agli individui umani. Non ci dilungheremo oltre su tale questione, che potrebbe condurci assai lontano dall’oggetto del nostro studio, per quanto non sia forse inutile, sotto certi aspetti, far comprendere come il ruolo dei cosiddetti «grandi uomini» sia spesso, in buona parte, un ruolo di «ricettori», benché essi stessi siano generalmente i primi ad illudersi circa la loro «originalità».
Per il momento, quel che ci riguarda più direttamente è questo: se dobbiamo constatare simili insufficienze in Leibnitz, insufficienze tanto più gravi in quanto vertono soprattutto sulle questioni di principio, che ne sarà degli altri filosofi e matematici moderni, ai quali è sicuramente molto superiore nonostante tutto? Tale superiorità gli deriva, da un lato, dallo studio delle dottrine scolastiche del medioevo, benché non le abbia sempre interamente comprese, e, dall’altro, da certi dati esoterici d’origine o d’ispirazione principalmente rosacrociana (4), dati evidentemente molto incompleti e anche frammentari, e che d’altronde gli accadde talvolta di applicare assai male, come vedremo da qualche esempio anche qui; è a queste due «fonti», per parlare come gli storici, che conviene riferire in definitiva pressoché tutto ciò che di realmente valido presentano le sue teorie, e che gli permise di reagire, sia pure imperfettamente, contro il cartesianesimo, il quale rappresentava allora, nel duplice dominio filosofico e scientifico, l’insieme delle tendenze e delle concezioni più specificamente moderne. Tale osservazione è sufficiente insomma a spiegare, in poche parole, tutto quel che fu Leibnitz, e, se lo si vuole comprendere, non si dovrebbero mai perdere di vista queste indicazioni generali, che, per tale ragione, abbiamo ritenuto opportuno formulare sin dall’inizio; ma è ora di abbandonare queste considerazioni preliminari per addentrarci nell’esame delle questioni che ci permetteranno di determinare il vero significato del calcolo infinitesimale.

Note
1. Si veda Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps, Gallimard, Paris, 1945; [trad. it.: Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, Adelphi, Milano, 1982].
2. Lo stesso accade agli «pseudo-esoteristi», i quali conoscono così poco ciò di cui vogliono parlare che non mancano mai di commettere questa stessa confusione nelle elucubrazioni di fantasia che hanno la pretesa di sostituire alla scienza tradizionale dei numeri!
3 L’ebraico ed il greco rientrano in questo caso, come pure l’arabo prima che fosse introdotto l’uso delle cifre d’origine indiana, le quali in seguito, modificandosi in misura maggiore o minore, di là passarono nell’Europa del medioevo; si può notare a tale proposito che lo stesso vocabolo «cifra» non è altro che l’arabo çifr, benché quest’ultimo non sia in realtà che la designazione dello zero. È vero d’altra parte che in ebraico saphar significa «contare» o «numerare» quanto «scrivere», da cui sepher, «scrittura» o «libro» (in arabo sifr, che designa particolarmente un libro sacro), e sephar «numerazione» o «calcolo»; da quest’ultima parola proviene altresì la designazione delle Sephiroth della Cabala, che sono le «numerazioni» principiali assimilate agli attributi divini.
4. Il marchio innegabile di tale origine si trova nella figura ermetica posta da Leibnitz all’inizio del suo trattato De Arte combinatoria: è una rappresentazione della Rota Mundi nella quale, al centro della doppia croce degli elementi (fuoco e acqua, aia e terra) e delle qualità (caldo e freddo, secco e umido), la quinta essentia è simboleggiata da una rosa a cinque petali (corrispondenti all’etere considerato in sé e come principio degli altri quattro elementi); naturalmente questa «firma» è passata completamente inosservata a tutti i commentatori universitari!